Devi Sacchetto – Università di Padova, “Logistica in Europa: tra SINISTRA EUROPEA conflitti e ristrutturazione”

Logistica in Europa: tra conflitti e riorganizzazione

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L’espansione del settore della logistica nel corso dell’ultimo ventennio è connesso all’accelerazione di processi di valorizzazione basati su lunghe catene del valore che segmentano la produzione e la forza lavoro. In Europa questo sviluppo è stato accompagnato da una forte crescita non solo della manodopera occupata ma anche della conflittualità operaia. La relazione si soffermerà sull’analisi sia delle interazioni incessanti tra la produzione e la distribuzione di merci sia sulla costruzione di collettivi operai in grado di contrastare le nuove modalità di controllo e messa al lavoro.
La logistica può essere descritta come quell’insieme di operazioni che garantiscono l’integrazione di processi produttivi dispersi e di arrivare nei mercati nel momento “giusto”.
Sebbene le operazioni siano molto diverse l’obiettivo della logistica sia distributiva sia industriale di cui parlerà Heiner Reimann, è di fluidificare i tempi connettendo diversi regimi del lavoro al fine di accelerare il processo di valorizzazione. La logistica di distribuzione è quel settore che si occupa della consegna delle merci finite e che ha invaso le città attraverso imprese come Amazon o Alibabà. La logistica industriale invece è legata alle esigenze di tenere insieme le catene del valore globali che fanno perno su stabilimenti sparsi in varie parti del mondo.
La struttura della produzione e della produzione si basano quindi su stabilimenti e magazzini che possono essere collocati in diversi Paesi sulla base di alcuni fattori: convenienze economiche, capacità di reclutare e gestire la forza lavoro, possibilità di occultare o, al contrario, esibire i processi di valorizzazione. I 67 pezzi che servono per costruire una scarpa, ad esempio, possono essere fabbricati in diverse parti del mondo ma a un certo punto devono convergere verso un unico punto di montaggio. E, possibilmente, questa convergenza deve avvenire in modo oculato, cioè né troppo presto né troppo tardi rispetto a quando la forza lavoro può svolgere il montaggio, imbustare la scarpa e recapitarla nei negozi per la vendita attraverso ulteriori operazioni logistiche.
Sicuramente i tempi dei processi di valorizzazione si stanno accorciando. Per gli imprenditori il tempo necessario per ritornare in possesso del proprio capitale investito è sempre eccessivamente lungo. Da questo punto di vista è comprensibile la necessità di accelerare il sistema della logistica e di renderlo fluido e senza intoppi. Le trasformazioni nel settore dei trasporti, da quello marittimo a quello aereo, su gomma o binario, ci rivelano la necessità capitalistica di abbreviare i tempi in presenza di processi produttivi frantumati (1) spazialmente. L’elemento centrale è infatti diventato il tempo di consegna di semilavorati e merci finite sottoponendo così le varie operazioni e soprattutto la forza lavoro a una esperienza di continua ansia produttiva.
Uno degli strumenti per ridurre questi tempi è la sovrapposizione tra produzione e riproduzione garantendo così una risposta alle esigenze di just-in-time delle imprese. La compressione dello spazio e del tempo per una più veloce valorizzazione del capitale richiede una sincronizzazione delle attività. Per questo il just-in-time delle imprese diventa il just-in-time della vita. 1 L’accelerazione è la base della nostra società contemporanea e questo produce una memoria sempre più a breve termine, imponendo una vita schiacciata sull’immediato. Se l’esempio più eclatante è quello dei giganteschi dormitori cinesi (2) , d’altra parte è sufficiente girare per le autostrade europee durante il fine settimana per vedere migliaia di autotrasportatori riprodursi tra i loro camion e le piazzole di sosta, aspettando il momento per rimettersi in marci e continuare a far girare le merci.
La logistica quindi dovrebbe permettere una circolazione fluida di merci finite e semilavorati. E’ evidente che questo quadro non solo occulta il lavoro concreto svolto da migliaia di persone, ma è attraversato da una molteplicità di resistenze ed errori, che provocano ritardi ai quali dovrebbe porre rimedio una forza lavoro estremamente flessibile.
Mentre l’attenzione politica si concentra sulla logistica di terraferma, occorrerebbe forse ricordare che la grande parte del volume di merci finite e semilavorati, viaggia ancora via mare grazie al lavoro di circa 1,5 milioni di marinai, le cui condizioni rimangono quelle maggiormente occultate. Mentre nella struttura produttiva della terraferma si espande l’internazionalizzazione produttiva e si affinano aree speciali di produzione, in mare si registra una situazione di progressiva multi-regolamentazione: una nave può giungere in un porto con la bandiera e con un equipaggio di un paese e poi salpare con un’altra bandiera e con un equipaggio reclutato all’altro capo del mondo, rimanendo sempre di proprietà della stessa compagnia. Ma i marittimi – la manodopera maschile più internazionale – si portano appresso la loro nazionalità a ogni ingaggio, facendola diventare elemento costitutivo delle loro condizioni di vita e di lavoro. I marinai, della cui esistenza ci accorgiamo solo nei casi di affondamento dei loro luoghi di lavoro, sono tuttavia in grado anche di organizzarsi. In coincidenza con il giorno internazionale del marittimo, il 25 giugno 2018, il sindacato indiano dei marittimi ha lanciato uno sciopero della fame che si è esteso a tutti i porti del paese: Mumbai, Kochi, Chennai, Kolkata, Andaman, Goa, Gujarat, Andhra Pradesh. I 150 mila

1 Andrijasevic R., Sacchetto D., “Il just-in-time della vita. Reti di produzione globale e compressione spazio- temporale alla Foxconn”, Stato e mercato, vol. 3, 2017, p. 383-420.
2 Pun Ngai, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, Jaca Book, Milano, 2012.

marittimi indiani chiedono salari più elevati dei 100-150 dollari mensili che guadagnano, un miglioramento pensionistico e un maggiore numero di persone a bordo. (3)
L’estensione continua del capitalismo e la sua articolazione attraverso reti produttive richiede e richiederà quindi sempre maggiore lavoro logistico. Se pensiamo a quanto è accaduto in Europa a partire dai primi anni Novanta con i processi di rilocalizzazione che si sono progressivamente affinati nell’Europa orientale e in Asia è evidente come il capitale internazionale produttivo solitamente comandi cicli produttivi sempre più complessi, mentre ai piccoli e medi imprenditori locali possono essere affidate la gestione dei sub-appalti. All’imprenditoria locale (o come nel caso italiano alle cooperative) toccano quindi SPESSO quei settori o quelle parti dei cicli produttivi a più basso valore aggiunto.
La capacità della logistica di articolare la produzione e la distribuzione implica da un lato una maggiore facilità per le imprese di procedere a rapide riorganizzazioni spaziali, cioè di spostare la produzione e/o le fasi distributive in altri luoghi, così come di spostare forza lavoro, dall’altro però sottopone l’intero sistema economico a maggiore stress, almeno sul breve periodo, essendo facilmente vulnerabile di fronte alle proteste e agli scioperi in determinati punti di questa immensa catena.
Le imprese manifatturiere si avvalgono di segmenti di forza lavoro sparsi nel territorio a livelli salariali e a intensità di lavoro diversi. Anche la logistica opera esattamente in questo modo aprendo continuamente nuovi territori, nuovi corridoi e nuovi stabilimenti per incrementare le sue capacità di connessione. Le nuove vie della seta che permettono di connettere la Cina con l’Europa in 2-3 settimane attraverso la ferrovia sono delle alternative al tragitto via mare più lungo fino a 5-6 settimane se il mare è calmo. E’ evidente che queste vie della seta non solo devono essere controllate adeguatamente attraversando lunghi territori, ma richiedono anche ingenti investimenti per costruire nuovi magazzini là dove più conviene.
Negli Stati Uniti il numero di magazzini è cresciuto di una volta e mezza tra il 1998 e il 2017 e sebbene molti di essi siano semi-automatici, il costo della forza lavoro conta per circa i due terzi di tutti i costi operativi. L’85% dei lavoratori statunitensi della logistica sono concentrati in grandi magazzini vicini alle aree metropolitane di Los Angeles, Chicago, e New York-New Jersey, che occupano almeno 100,000 lavoratori ognuno. (4) L’ampia concentrazione di forza lavoro nei pressi delle aree metropolitane non è ristretta agli Stati Uniti ed è visibile anche in Europa.

3 https://newsclick.in/seafarers-indefinite-hunger-strike-all-major-ports-india
4 https://theconversation.com/modern-capitalism-has-opened-a-major-new-front-for-strike-action-logistics-89616 https://solidarity-us.org/us_labor_new_and_not/

L’infrastruttura logistica è importante sia per la produzione e distribuzione sia per lo spostamento della forza lavoro. La costruzione di un sistema produttivo e distributivo internazionale è una rete che funziona come uno spazio continuamente ristrutturato perché l’attuale globalizzazione rende capitalisticamente produttivo il comando politico che si esercita lungo i confini per conservare il potenziale valorizzante dei differenziali salariali e di consumo. La logistica è infatti un sistema che tiene insieme tempi e forme di estrazione di plusvalore assoluto e relativo all’interno di un’unica catena: la catena del sub-appalto o del caporalato internazionale. (5)
L’espansione delle reti produttive è connessa alla capacità delle imprese di reperire e talvolta addirittura importare forza lavoro là dove le condizioni sono più vantaggiose per il profitto. Su questo faccio due esempi, entrambi provenienti dai paesi dell’Europa orientale. Il primo è di un’impresa a Bacău, in Romania che produce abbigliamento per Dainese, Moncler, Salewa, Max Mara, Chervo, Vuarnet, Benetton, Sisley, dove qualche anno fa erano occupati circa 300 lavoratrici cinesi e 600 operai bangladesi in prevalenza uomini. I migranti erano stati importati attraverso agenzie di reclutamento al fine di costruire una diversa composizione di forza lavoro. Le generazioni più giovani della manodopera romena si mostravano infatti piuttosto restìe all’impiego in fabbrica e quelle di età più avanzata vantavano una certa capacità di contrattazione, potendo contare sul legame con piccole attività agricole, sulle rimesse degli emigrati e sulla potenzialità, sempre incombente, di mercati del lavoro europei più remunerativi. (6)
Il secondo esempio proviene dagli studi che sto compiendo insieme con Rutvica Andrijasevic dell’Università di Bristol da diversi anni sulla Foxconn, un’impresa taiwanese che occupa 1,3 milioni di persone soprattutto in Cina ma che è presente anche nella Repubblica ceca, in Slovacchia, in Ungheria e in Turchia. Nella Repubblica ceca e slovacca il 40-50% del personale è reclutato attraverso agenzie che operano nei paesi di provenienza dei migranti come la Romania, la Bulgaria, la Polonia. Negli ultimi due anni l’azienda è andata a reclutare anche in Mongolia. Come afferma una delegata sindacale: “reclutare lavoratori mongoli significa che non trovano più operai da queste parti, ma l’azienda ci ricorda che è in grado di andare a prendere la forza lavoro dall’altra parte del mondo”. Il reclutamento e lo spostamento di questi lavoratori è possibile solo grazie a un’infrastruttura logistica molto articolata che non coinvolge solo il trasporto, ma anche decine di persone, piccoli imprenditori o brokers che costruiscono reti sociali fondamentali per costruire questi flussi. (7)

(5) Tomba M., “I tempi storici del capitale”, Critica marxista, n. 5 (2006), pp. 27-36.
(6) Davide Bubbico, Veronica Redini, Devi Sacchetto, I cieli e i gironi del lusso, Guerini, Milano, 2017.

L’espansione degli intermediari formali e informali va di pari passo con la loro trasformazione e capacità di connettere diversi paesi, diversi mercati del lavoro e diverse richieste di datori di lavoro e lavoratori. (8) Gli intermediari contribuiscono così a produrre una sessualizzazione e una razzializzazione dei lavoratori guidandoli in mercati del lavoro specifici ed evitando altri mercati del lavoro Il sistema logistico è sottoposto a un controllo articolato sia delle operazioni sia più direttamente del lavoro. Il controllo è inserito in norme e procedure informatiche,
apparentemente oggettive, ma che sono estremamente pervasive e che permettono di accertare i contenuti della prestazione lavorativa a distanza e in modo individualizzato. Il governo del lavoro attraverso algoritmi vorrebbe imporsi come razionalità tecnologica occultando il fatto che si tratta di un’operazione politica. (9)
La logistica funziona attraverso algoritmi che tendono a livellare, omogeneizzare, replicare le modalità secondo modalità contemporaneamente di standardizzazione e diversificazione. Diversificazione è la possibilità di avere più risposte di fronte a una domanda/problema/bisogno. Cioè più imprese che producono il medesimo bene, cioè più porti dove scaricare la merce, cioè più centri di distribuzione dove lavorare, più corridoi. Cioè più assemblaggi di forza lavoro. Ma i processi economici dovrebbero essere svolti linearmente, perché gli algoritmi riproducono una risposta precisa per ogni apparente problema, sulla base certo di quanto imparano dalle molte informazioni che arrivano loro. Il punto non mi sembra sia sull’intelligenza artificiale, ma quanto in questo salto tecnologico vi sia produzione di nuove modalità di lavoro e di gestione del lavoro. La frammentazione dei processi produttivi moltiplica infatti le figure del lavoro contemporaneo. (10)
Gli standard sono cruciali per l’operatività del capitalismo, che mira ad assemblare segmentandole le forme di acquisto della forza lavoro. Ma il capitalismo si ritrova di fronte un lavoro vivo non standard e che essere deve parcellizzato. Standard significa modificazione anche del linguaggio umano, verso una sua semplificazione per velocizzare le operazioni. Per riprendere l’esempio dei marinai, questa forza lavoro multinazionale conosce sovente poche centinaia di vocaboli lavorativi. Bar code, voice e altri aggeggi oltre che impoverire il linguaggio vanno incontro alla complessità per ridurla e al tempo stesso hanno la capacità di tenere traccia delle operazioni svolte o che stanno svolgendo i lavoratori.

(7) Si veda ad esempio Andrjiasevic R., Sacchetto D., “Il lavoratore multinazionale in Europa. Costrizioni e mobilitazioni”, in Chignola S., Sacchetto D. (a cura di) Le reti del valore. Migrazioni, produzione e governo della crisi, Derive & Approdi, Roma, 2017, pp. 12-30.
(8) Xiang, B., Lindquist, J., Migration Infrastructure. International Migration Review, 2014, Vol. 48, pp. 122-S148.
(9) Noble D. F., La questione tecnologica, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
(10) Benvegnù C., Iannuzzi F. E., Figure del lavoro contemporaneo, Ombre corte, Verona, 2018.

Ma la forza lavoro non viene messa al lavoro per la sua capacità di essere standard, ma per la sua capacità di essere differente, per la sua specificità e indeterminatezza. (11) La forza lavoro può anche essere ridotta a una sequenza di numeri, come nel caso di Amazon Mechanical Turk, ma va messa al lavoro perché è in grado di superare i livelli medi di produttività e soprattutto perché è in grado di sviluppare innovazione.
La manodopera occupata nella logistica costituisce un insieme eterogeneo di individui: facchini, autotrasportatori, marinai, rider, ma anche molti che operano nella gestione dei sistemi operativi come informatici, tecnici e così via. A fianco di lavoratori che dispongono di lunghe tradizioni, come nel caso dei portuali, si ritrovano così migranti inseriti nelle imprese degli appalti e subappalti, e operai locali e migranti che nei magazzini dell’Europa orientale iniziano faticosamente a costruire nuove forme di organizzazione operaia.
Si tratta di una forza lavoro sovente segmentata attraverso appalti e subappalti, ma anche grazie all’opera di agenzie di reclutamento che operano sempre più spesso su scala internazionale o ancora attraverso quelli che sono i lavoratori in distacco, formalmente dipendenti di un’azienda di un paese e che operano però per gran parte del loro tempo in un altro paese. Nella logistica europea, così come in molte altre aziende, dell’Est e dell’Ovest, è ormai al lavoro una manodopera multinazionale con esperienze di lavoro in vari paesi. Gli scioperi e le proteste che si sono sviluppati nel settore della logistica in questi anni in Europa evidenziano la crescita di una nuova composizione di classe in corrispondenza delle trasformazioni produttive ma anche dei movimenti migratori. Per quanto il capitale cerchi di imbrigliare questi movimenti è evidente che un numero sempre più ampio di migranti si muove in modo indipendente oppure usa strumenti come le agenzie di reclutamento e il lavoro in distacco per poter inserirsi in mercati del lavoro nei quali le condizioni di lavoro siano maggiormente vantaggiose. In questa congiuntura, non è sorprendente che lo strumento messo in campo più frequentemente dai lavoratori come forma di lotta nei confronti del padronato non sia tanto lo sciopero, quanto forme individuali, quali l’assenteismo e il turnover, oltre che il ricorso alla migrazione. Si tratta di una forza lavoro a basso salario le cui strategie di mobilità sfidano le aspettative imprenditoriali in merito alla disponibilità al lavoro, come pure l’atteggiamento dei sindacati che trattano i lavoratori migranti come dequalificati e “ammortizzatori” di processi lavorativi instabili. Di solito questo uso attivo della mobilità è considerato da alcuni sindacati come una minaccia: dal loro punto di vista, i salari e gli standard di lavoro più bassi fanno sì che gli imprenditori preferiscano assumere migranti, causando trasferimenti e aumentando i livelli di disoccupazione della forza lavoro locale. Ma

(11) Smith C., “The double indeterminacy of labour power. Labour effort and labour mobility”, Work, Employment and Society, Vol. 20 (2), 2006, pp. 389-402.

questi movimenti mettono in discussione l’organizzazione tradizionale del sindacato e persino l’idea stessa di sindacato. Occorre quindi chiedersi se il modello sindacale tradizionale sia all’altezza di una manodopera sempre più mobile e occupata in modo informale. Se il sindacato organizza solo lavoratori sul lungo periodo e non è in grado di organizzare quelli che sono costantemente in movimento nello spazio europeo, il problema della sindacalizzazione è di come connettere lo spazio e il tempo del lavoro che il capitale cerca costantemente e violentemente di separare. Non si tratta cioè di pensare a nuovi soggetti storici che rimpiazzino la classe operaia manifatturiera che qualcuno si ostina a definire fordista, ma di prendere atto che oggi la nuova composizione di classe ci impone di riconsiderare comportamenti, forme di espressione e di organizzazione operaia dentro e fuori i posti di lavoro.
A livello europeo, le forme di lotta e di resistenza che si sono sviluppate in questi anni sono state molteplici sostenute da sindacati tradizionali, così come da nuove modalità di organizzazione operaia. Queste lotte si sono concentrate prevalentemente nei luoghi di maggiore aggregazione, vale a dire i magazzini e i porti, mentre un comparto strategico come quello del trasporto su strada è stato solo parzialmente interessato dalla conflittualità. Se la struttura del trasporto per gomma è sovente estremamente frammentata anche in Europa, nei magazzini, invece, la concentrazione degli occupati ha sicuramente permesso una più facile connessione delle nuove forme di soggettività operaie. Dall’Italia alla Polonia è soprattutto grazie a sindacati di base che questa composizione di classe estremamente frammentata dal punto di vista contrattuale, della nazionalità, del genere e del colore della pelle è riuscita a trovare una sua parziale ricomposizione.
Di fronte alle analisi che troppo spesso si soffermano sulla debolezza e vulnerabilità dei migranti, è possibile notare come proprio la condizione specifica di questi lavoratori in quanto migranti abbia permesso, ad esempio in Italia, l’emergere e l’estensione delle lotte. (12) D’altra parte, se rivolgiamo lo sguardo verso le forme di organizzazione e talvolta di lotta operaia che interessano i magazzini Amazon in Germania e in Polonia possiamo notare come stiano emergendo lentamente forme transnazionali di organizzazione o perlomeno un tentativo di mettere in campo delle forme di collaborazione come il rallentamento del lavoro nel magazzino polacco, quando quello tedesco è in sciopero. I luoghi di lavoro rappresentano il punto di intersezione di diverse forme di organizzazione del lavoro, ma anche di diverse capacità di mobilitazione. E’ quindi sempre più urgente costruire un’infrastruttura politica transnazionale che sia in grado di contrastare le varie articolazioni assunte dalle strutture produttive e dalla logistica che mirano alla fin fine a catturare, disciplinare e controllare in modo eterogeneo il lavoro.

(12) Benvegnù C., Nelle officine della circolazione. Un’etnografia del lavoro logistico tra il Grand Paris e la metropoli diffusa veneta”, Tesi di dottorato in co-tutela Università degli Studi di Padova-Université Paris 8 Saint- Denis, 2014-2018.

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