Ambiente, Lavoro

Facciamo l’Ilva valley

Lo stabilimento tarantino si potrebbe riconvertire al fotovoltaico. Vendola e i sindacati potrebbero mettersi alla testa di una mobilitazione che, partendo dalla Puglia, metta in moto l’avvenire ambientale e industriale dell’Italia.

«Non si può più consentire al siderurgico tarantino del gruppo Riva (in possesso dell’ex impianto Finsider dal 1995) di sottrarsi al dovere di anteporre la logica del profitto, sino ad oggi così spregiudicatamente e cinicamente seguita, al rispetto della salute e della salubrità dell’ambiente».
Partendo da questa considerazione il giudice Patrizia Todisco, sostenuta dai Procuratori di Taranto e di Lecce e da tutti i colleghi, ha disposto il rinvio a giudizio e gli arresti domiciliari a carico dei proprietari Riva e di sei dirigenti per i reati di disastro ambientale e omicidio colposo plurimo. Sono in corso, anche, due procedimenti penali, ad iniziativa di comitati ambientalisti e di cittadini danneggiati. Viene consacrato, così, in un atto giudiziario, il concetto, finora espresso dalla sinistra ambientalista, della impossibilità di conciliare un’economia basata sul profitto con la difesa dell’ambiente dai disastri, a cui ogni giorno assistiamo, come lo scioglimento dei ghiacci ai poli, gli incendi, le siccità, le alluvioni. I magistrati di Taranto e Lecce riaffermano il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge che deriva dalla rivoluzione francese tradotto poi nel codice napoleonico e nelle Costituzioni di tutti gli Stati europei. Questi giudici sono sullo stesso piano, a mio avviso, di quelli antimafia siciliani Falcone, Borsellino, Chinnici, ed ora, i loro eredi Ingroia e Spampinato, etc. che sono stati e sono sottoposti ad un fuoco di fila da parte di poteri che si sono giovati e si giovano tutt’oggi dell’appoggio della mafia.
La maggior parte degli operai e dei sindacati hanno seguito, e forse seguono ancora, la linea difensiva dei Riva per paura di perdere il posto di lavoro. Ma ci sono lavoratori che: si sono ripresi la parola e hanno rivelato verità scomode. Irrompono nella sede della fondazione Riva, zeppa di telecamere e giornalisti, dove Ferrante tiene nei giorni scorsi la sua conferenza stampa e parlano: «Il 30 marzo (all’approssimarsi della sentenza quando gli operai manifestarono contro i magistrati) ci avete pagato la giornata e i pullman per andare alla manifestazione. Oggi abbiamo scioperato, ma voi avete continuato a produrre, avete fatto 23 colate di acciaio al posto delle solite 18…». Silenzio imbarazzato e fine della conferenza stampa. Sono intervenuti a centinaia alla manifestazione indetta dai sindacati il 2 agosto per sostenere queste posizioni senza suscitare reazioni contrarie da parte delle migliaia di altri operai intervenuti.
Si impone una riflessione. Nel XX secolo la forza scatenante di tutte le grandi rivoluzioni antimperialiste è stata rappresentata essenzialmente dalle masse contadine e dalle borghesie nazionali, che hanno posto fine ad un sistema di globalizzazione iniziato nel 1492. Oggi l’anello più debole della dominazione capitalista è rappresentato dall’incompatibilità del sistema basato sul profitto con la difesa dell’ambiente e della salute di tutti i cittadini. Il caso Taranto è emblematico. È un dovere per chi si professa di sinistra o di chi dirige un sindacato, come la Fiom o la Cgil, sostenere, sia a Taranto sia in Sicilia, la provvidenziale azione dei magistrati. Il caso Taranto è significativo per un’altra ragione: rappresenta il fallimento e/o l’obsolescenza di due politiche industriali iniziate nel ’48 (Piano Sinigaglia) e nel ’50 (Cassa del Mezzogiorno). La mancanza di risorse minerarie, carbone e ferro, in quantità sufficienti per alimentare una grande industria, aveva limitato lo sviluppo del nostro paese. Negli anni 50′ e 60′ il Piano Sinigaglia, appoggiato dalla Fiat di Valletta, con il primo stabilimento a ciclo integrale di Cornigliano (Ge), si basò sul carbone e minerali di ferro, provenienti, via mare, da paesi che avevano le materie prime ma non erano in grado di realizzarne in loco la trasformazione. Con la fine del colonialismo, e l’inizio dello sviluppo dei paesi che oggi vanno sotto il nome di Brics, la situazione è profondamente mutata in quanto questi paesi sono in grado di utilizzare in loco le materie prime di cui dispongono.
Per fare un esempio, nel 2002 la Cina produceva il 15% dell’acciaio mondiale oggi ne produce il 45% ed è al primo posto nel mondo. Però nel contempo ha chiuso i reparti a caldo, come quelli sequestrati a Taranto, ubicati a Shanghai e a Canton e li ha trasferiti nelle zone interne, meno popolate e più vicine alle miniere, mantenendo però nelle due grandi città costiere le lavorazioni più ricche. La cokeria e gli alti forni di Taranto, per funzionare, hanno bisogno di dieci tonnellate di carbone e minerale, che proviene da migliaia di km di distanza, per produrre una tonnellata di acciaio che successivamente viene lavorata nei reparti a freddo o in altre acciaierie elettriche d’Italia. Tutto ciò si è retto finora perché gli impianti di Taranto, costati miliardi di denaro pubblico alla Finsider, sono stati quasi regalati a Riva, hanno ottenuto finanziamenti e soprattutto la tolleranza di un disastro ambientale inconcepibile in un paese civile. In Francia e Gran Bretagna, paesi leader della prima rivoluzione, hanno chiuso da tempo questi impianti trasformati oggi in un sito turistico di archeologia industriale. Per affrontare veramente la questione bisogna partire dal fatto che la sentenza non mette in discussione tutta l’acciaieria ma solo la cokeria e gli alti forni cioè poco più di un terzo degli operai. Adoperando lo schema di Cornigliano (chiusura degli alti forni e mantenimento delle lavorazioni elettriche più redditizie) si potrebbe acquistare, sul mercato internazionale a costi competitivi, il prodotto necessario per la seconda lavorazione liberando i 7.500 operai rimasti e la popolazione di Taranto dall’attuale crisi ambientale. Così come potrebbero fare gli altri impianti elettro siderurgici che lavorano in Italia. I 4.500 operai nel settore da chiudere sarebbero sicuramente impiegati per diversi anni nel lavoro necessario di rimessa in sicurezza delle aree interne ed esterne inquinate (è vietata l’agricoltura per 20 km attorno alla fabbrica). Le enormi superfici così liberate, non possono essere restituite all’agricoltura, ma potrebbero essere utilmente occupate da una grande centrale fotovoltaica capace di produrre la gran parte dell’energia elettrica necessaria per l’azienda. Nessun operaio dovrebbe essere licenziato.
E qui il discorso si allarga al Mezzogiorno dove sono in crisi tutte le “cattedrali nel deserto” (che più che cattedrali sono mostri di desertificazione) a cominciare da Gela, Priolo, Milazzo, Brindisi, etc, che hanno visto ridurre a poche centinaia le migliaia di lavoratori utilizzati nel primo periodo della loro attività. Queste non solo hanno occupato terreni adattissimi al turismo e all’agricoltura d’avanguardia ma con i loro fumi ne impediscono lo sviluppo per decine di km. L’unico impianto del Mezzogiorno, che ha prodotto e produce occupazione e sviluppo, anche qualificato, è quello promosso da Pasquale Pistorio a Catania con la STMicroelettronics che ha realizzato, in un momento di crisi dell’elettronica di consumo un aumento degli investimenti e dell’occupazione. Occupazione, particolarmente qualificata, per quasi il 50% rappresentata da ingegneri e tecnici (onde lo sviluppo delle facoltà universitarie collegate) e che oggi è in grado di produrre 400 Mw di pannelli solari all’anno che però non possono essere utilizzati in Italia perché, dopo l’exploit dei primi Conti Energia degli anni 2010 – 2011 e nella prima parte del 2012 che hanno portato l’Italia al primo posto nel mondo nell’installazione di pannelli fotovoltaici, in virtù dell’unica materia prima in cui abbondiamo che è il sole. Monti, sostenuto dalla sua maggioranza ABC, ha bloccato le rinnovabili per garantire il monopolio dell’Eni, dell’Enel e delle altre società privatizzate, mettendo così in serio pericolo i 60 mila nuovi posti di lavoro, ma soprattutto la prospettiva di raggiungere i 350 mila posti come in Germania. Posti creati da piccole e medie imprese ma anche da imprese come quella della famiglia Marcegaglia che, come ho scritto nell’articolo “Il futuro è rinnovabile” del 6 ottobre scorso sul manifesto, ha ristrutturato un suo impianto siderurgico iniziando la produzione di pannelli fotovoltaici con oltre 250 nuovi addetti. Utilizzando, nello spirito dell’art. 43 della Costituzione, richiamato da Cremaschi nel manifesto del 3 agosto, queste esperienze e l’apporto delle due imprese (Stm e Marcegaglia) si potrebbe proporre per l’Ilva una nuova attività nel fotovoltaico di dimensioni analoghe all’Etna Valley (4.500 occupati) capace di sviluppare ulteriormente l’occupazione. Ma questo presuppone un mutamento radicale nella politica ambientale e industriale del governo Monti.
Ai quattro nuovi referendum proposti dall’Idv bisognerà aggiungerne un altro tendente a rovesciare questo provvedimento che blocca l’unica crescita industriale possibile. Intanto la Regione Puglia, Nichi Vendola, la Fiom, la Cgil, e se vogliono gli altri sindacati, dovrebbero mettersi alla testa di una mobilitazione che, partendo da Taranto, riguarda l’avvenire ambientale e industriale di tutto il paese. E prima di pensare, in vista delle prossime elezioni nazionali, a schieramenti pre elettorali o ad alleanze post elettorali, addirittura con l’Udc, bisogna chiedere a Bersani e Casini se vogliono ritirare oggi il sostegno alla politica disastrosa di Monti in generale e, in particolare, rivedere la loro posizione, riguardo la questione essenziale e strategica nel XXI secolo, ce è quella del passaggio da una economia basata, come nel XIX e XX secolo sulle energie fossili, ad un nuovo modello economico e sociale necessario per salvare l’ambiente, ormai tecnologicamente possibile e capace di assicurare lo sviluppo dell’occupazione e quindi una migliore difesa delle conquiste sociali già realizzate.

Fonte: www.controlacrisi.org

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