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In memoria di Mario Dalmaviva

Un addio per Mario Dalmaviva

La memoria resta «Viva», un abbraccio e un addio da tutto il collettivo de il manifesto

Tommaso Di Francesco – 21 7 16 – Manifesto

Una brutta e triste notizia: è morto Mario Dalmaviva. Dopo una lunga malattia se n’è andato. Diciamo subito che è stata una persona alla quale questo giornale ha davvero voluto molto bene. Mario Dalmaviva era stato militante di Potere Operaio e pubblicitario, venne coinvolto nell’inchiesta del 7 Aprile 1979 su Autonomia Operaia e subì un lungo periodo di detenzione preventiva prima di essere condannato ad una pena di sette anni, poi ridotta a quattro (già scontati). Fu quello della battaglia contro il teorema del magistrato Calogero, un impegno costante del quotidiano comunista il manifesto e dell’iniziativa di Rossana Rossanda.

Dal carcere di Torino l’autore cominciò a inviarci una serie di vignette fatte, com’è facile immaginare, in scarsità di mezzi e spazi, facendo così di necessità virtù. Tutte avevano come unico protagonista la porta sbarrata di una cella: era un infinito, ma recluso. Da lì uscivano delle nuvole pensierose che ponevano domande sui contenuti della nostra residua libertà. La cella come espediente narrativo, dando così la misura dell’angoscia e della claustrofobia della detenzione carceraria ma in una forma e misura grafica. Quelle furono, se non sbaglio, le prime vignette uscite sul manifesto. Ed ebbero subito un grande successo, anche perché fortemente segnate dalla volontà di restituire nel segno e nello spazio breve del fumetto dentro la nuvola, nel modo della satira, tutta la pesantezza del tempo, quello della fine degli anni Settanta e dell’inizio incerto e oscuro, appena abbozzato, degli anni Ottanta.

Un fatto era certo: Mario Dalmaviva, non voleva comunque rinunciare ad esprimersi ironicamente. E utilizzava ogni vignetta, ogni balloon, come lima per segare le sbarre delle prigioni, concrete e mentali di una intera generazione. Sempre siglando «Viva», radice ultima del suo cognome e nuova firma, un timbro di testimonianza lucida e serena. Alla moglie e a tutti quelli che gli hanno voluto bene, a cominciare dal «fratello» Alberto Magnaghi, un abbraccio e un addio da tutto il collettivo de il manifesto.

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Un ironico rivoluzionario

Mario Dalmaviva davanti ai cancelli della Fiat (1972, foto di Tano D’Amico)

Mario Dalmaviva davanti ai cancelli della Fiat (1972, foto di Tano D’Amico)

Alberto Magnaghi – 21 7 16 – Manifesto

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«LIbertà vo’ cercando», speciale de il manifesto, 1982

È morto Mario Dalmaviva. Ha resistito più di altri: la statistica dei compagni del Processo «7 aprile 1979» che hanno subìto una ingiusta carcerazione preventiva (fino a 5 anni e 4 mesi, come Mario) e sono morti prematuramente per malattia è impressionante: Luciano Ferrari Bravo, Augusto Finzi, Guido Bianchini, Franco Tommei, Emilio Vesce, Sandro Serafini, Giorgio Raiteri, Paolo Pozzi, Gianmario Baietta, Antonio Liverani… insomma, la galera uccide.

Ma la ribellione di Mario all’ingiustizia è cominciata molto tempo fa, nel 1981, con uno sciopero della fame di sessanta giorni, per rivendicare la propria innocenza: il giudice Caselli lo aveva, poco prima del «teorema» del giudice padovano Calogero, prosciolto da tutti i reati torinesi per cui era inquisito. Ma anche per rivendicare la propria estraneità, dal carcere speciale di Fossombrone, al progetto delle Br di rilancio della lotta armata, attraverso le rivolte carcerarie.

Nonostante questa rabbia profonda, Mario è stato un rivoluzionario dolce, sorridente, che ha accompagnato le nostre galere con l’ironia delle sue vignette. Veniva da sociologia di Trento. Un dirigente di successo alla Bolaffi a Roma («facevo il giovin signore che andava a cavallo a villa Borghese al mattino») che, come Francesco (il riferimento oggi è un po’ scontato) si spoglia dei suoi averi, folgorato dal Maggio francese, partendo con una Vespa da Roma per Torino: lo si è visto per molto tempo all’Ospedale delle Molinette occupate a Torino dirigere l’assemblea operai-studenti della Fiat, con un portafoglio gonfio alla mano.
Aveva da poco conosciuto Sergio Bologna a Milano, Vittorio Rieser a Torino, con il quale aveva fondato la Lega studenti–operai, anticipatrice, con gli scioperi alla Lancia, dell’incontro sociale fra università e fabbrica ai cancelli della Fiat; una miscela esplosiva che per molto tempo ha fatto tremare padroni e sindacati, dalle grande vertenze salariali egualitarie, per lo meno fino alla grande insurrezione del 3 luglio 1969. La lotta continua si chiamava il volantino dell’assemblea permanente operai-studenti, densa di «angeli del ciclostile», che sui tre turni raccoglieva le informazioni di lotta dai reparti e le diffondeva alle porte al turno seguente, in un crescendo continuo di mobilitazione.

Quando l’assemblea operai-studenti «di Mario» si esaurisce, i gruppi di Lotta continua e Potere Operaio (cui Mario aderisce) si dividono. Fino agli ultimi spasimi dello scioglimento di Potere Operaio nel 1973, e anche oltre, Marione (così affettuosamente chiamato per la sua imponente, energetica figura), pur essendo con me e pochi altri in minoranza, dopo il convegno «insurrezionalista» del ’71 a Roma, ha militato nel gruppo con lealtà (e forse ingenuità), ritrovandosi così nel gruppo dirigente della presunta «insurrezione armata» del processo 7 aprile ’79.

Ma la vena poetica della sua vita quotidiana, che non dava tregua alle tendenze «seriose» di noi militanti, irrompe dal grigiore stereotipo del carcere, divenendo essenziale forma artistica: nasce la cella nera firmata «Viva», una vignetta che ha accompagnato, rispettando la tragicità dell’evento, ma sublimandolo nella satira, una generazione di carcerati politici.

Il suo «culone» alla finestra di casa a Torino, che commentava il mondo dagli arresti domiciliari dopo il carcere, è stato l’ultimo atto della sua funzione sociale di vignettista. Poi ha mutato, come molti di noi, le forme del suo impegno, occupandosi, questa volta da imprenditore attento al sociale, di editoria lavorando con la moglie Teresa alla casa editrice Vivalda e a riviste come Alp.

Da qualche anno si erano trasferiti a Perinaldo nell’entroterra ligure, seguendo gli odierni flussi spontanei di «ritorno alla montagna», dopo il grande esodo forzato degli anni Cinquanta verso la città fabbrica. «C’è stata, secondo me – confessò in un’intervista del 2001 – , una grande rivoluzione sociale in Italia; non è diventata, come volevamo noi, rivoluzione politica».

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