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Congresso regionale di Rifondazione Comunista 2017: Paolo Benvegnù riconfermato segretario regionale, relazione introduttiva.

Innanzitutto voglio ricordare che domani sarà il cinquantesimo anniversario della morte del comandante Ernesto “Che” Guevara, una vita spesa per il socialismo e la liberazione dei popoli dall’oppressione e dallo sfruttamento. Tutti conosciamo quelli che sono stati i suoi meriti e il suo sacrificio. Il Che resta per noi un esempio e una bandiera.

Cento anni fa la rivoluzione d’ottobre in Russia. Non possiamo che partire da lì. Quella rivoluzione, rivoluzione degli operai, dei contadini dei soldati che si ribellavano alla guerra imperialista e alle immani perdite umane che essa provocava, assieme alla Comune di Parigi è e rimane il nostro atto fondativo.

Mi permetto di citare alcuni passi da uno scritto del filosofo francese Alain Badiou. Li cito perché mi ci riconosco pienamente. Alain Baidou ha scritto che quella rivoluzione “stabiliva un potere il cui obiettivo dichiarato era il rovesciamento totale delle fondamenta millenarie di tutte le società moderne”, la dittatura nascosta di coloro che possiedono il controllo finanziario della produzione e dello scambio. Quella è stata una rivoluzione che si è aperta alla nascita di una nuova modernità, “Il nome di questa modernità assoluta rimane comunismo”. “La rivoluzione comunista del ‘17 rimane la nostra base per sapere che a livello temporale del divenire dell’umanità, il capitalismo dominante è e sarà, per sempre qualcosa del passato. Nonostante le esperienze che passano”.

Voglio anche ricordare, solo in omaggio alla nostra storia e ai nostri padri fondatori, che Marx ed Engels lessero nelle conseguenze del conflitto tra Francia e Germania del 1870 e dei suoi esiti, l’annessione dell’Alsazia e della Lorena, le cause della prima guerra mondiale e le sue caratteristiche. Carlo Marx nel primo indirizzo dell’associazione internazionale dei lavoratori sulla Comune di Parigi, e successivamente Engels nel 1890 nell’introduzione alla pubblicazione degli scritti di Marx sulla Comune voluta dalla socialdemocrazia tedesca. La profonda conoscenza di quei testi fu un punto di riferimento fondamentale nella definizione della strategia e della tattica dei bolscevichi indicata da Lenin nella rivoluzione russa. Guardiamo alla nostra storia non per nostalgia del passato o per amore delle frasi scarlatte, ma perché siamo convinti, oggi più ancora di ieri, che l’alternativa che si pone di fronte all’umanità è ancora una volta “socialismo o barbarie”.

Siamo e restiamo orgogliosamente comunisti organizzati in partito, ma siamo il partito della rifondazione comunista. Nella parola “rifondazione” sta la nostra storia e la nostra ambizione. Quella del tentativo di riproporre le fondamenta della prospettiva comunista della libertà e dell’uguaglianza. Ancora nel 1993, scrivevamo nei nostri documenti “non è il comunismo che è crollato sotto le macerie dei regimi dell’Est, ma sono crollati i sistemi che rappresentavano la negazione dei nostri ideali. Il comunismo nella nostra concezione è l’orizzonte più elevato della libertà umana”. Il crollo dei paesi del socialismo reale, le tragedie che hanno caratterizzato il periodo dello stalinismo, gli errori e gli orrori commessi in nome del comunismo ci costringono a fare i conti con quella storia, per procedere in avanti.

La crisi sistemica del capitalismo

Mi è accaduto, negli anni immediatamente successivi allo scoppio della bolla speculativa e all’appalesarsi delle ragioni strutturali della crisi che da lì manifestava la sua potenza, di avere modo più volte di confrontarmi con esponenti di diverse forze politiche in qualche trasmissione televisiva di noti canali privati del Veneto. Nessuno dei miei interlocutori, sicuramente la grande maggioranza, aveva non dico compreso le ragioni strutturali e di fondo della crisi e dei suoi possibili sviluppi ma quasi tutti/e erano sostanzialmente convinti che fosse di natura congiunturale e che presto i solidi meccanismi del mercato avrebbero rimesso in moto la macchina dell’economia. Una pia illusione come i fatti dimostrano ampiamente. Nessuna delle contraddizioni che la crisi del 2008 ha appalesato è stata risolta, anzi; tutti i fattori strutturali che l’hanno determinata permangono e si sono accentuati.

L’enorme sproporzione tra la ricchezza di pochi e la povertà che affligge una parte sempre più larga dell’umanità, non solo nelle aree periferiche ma anche nelle stesse metropoli, parla da sé della insostenibilità delle contraddizioni interne al rapporto di capitale. Una contraddizione che nasce dalla necessità di valorizzazione del capitale e della sua riproduzione. L’enorme sviluppo delle forze produttive, della scienza e della tecnica, la possibilità concreta, per la prima volta nella storia, di garantire a tutti e a tutte la piena soddisfazione dei bisogni primari e non solo, si è rovesciata nel suo contrario. Nel quadro dei rapporti di produzione capitalistica, la sovrapproduzione che si è determinata, nell’accendersi di una feroce competizione su mercato globale, si è risolta nell’aumento dello sfruttamento, nell’impoverimento assoluto e relativo di settori consistenti della società. La riduzione del tempo di lavoro necessario nella produzione di merci e servizi si è rivoltata nel prolungamento degli orari di lavoro, nella disoccupazione di massa, nel diffondersi della precarietà. La crisi in cui ci troviamo, nata come tutti/e sappiamo nei paesi a capitalismo avanzato, ha la propria origine non nella scarsità ma nell’incapacità del capitalismo a riprodursi nel contesto di relativa abbondanza che ha contribuito a creare. Proprio questo sviluppo del capitale pone in modo maturo le condizioni per una transizione al socialismo nei termini in cui l’ha posta Marx. Il capitale, nel ridurre drasticamente il tempo di lavoro necessario per produrre le merci, pone le condizioni per due fenomeni tra loro intrecciati: da un lato la produzione di una quantità di merci maggiore di quella che viene consumata e quindi rimane invenduta; dall’altra il non utilizzo di una quota sempre maggiore della forza lavoro. Quello che è un fenomeno storicamente positivo per l’umanità – il fatto che si possa produrre una maggior quantità di merci con un minor dispendio di lavoro – si presenta nel sistema capitalistico come una maledizione. All’origine vi è quindi l’incapacità del capitale di mediare positivamente l’abbondanza.

Lo sviluppo su scala globale delle produzioni, le delocalizzazioni di settori interi delle catene di produzione di merci, in particolare nei settori cosiddetti maturi, o ad alta intensità di lavoro (cosa non nuova per altro, è accaduto per l’industria tessile all’inizio del secolo scorso in Europa) la mercificazione di settori storicamente estranei alla catena della produzione del valore, la privatizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni, sono state le linee portanti delle politiche liberiste. A questo si è affiancata la tendenza interna alla storia dello sviluppo della società borghese di fare denaro con il denaro, dalla bolla dei tulipani dell’Olanda del XVII secolo ai giorni nostri. Il ripetersi delle bolle speculative che hanno segnato la fase dell’onda liberista, tentativo di riproduzione del capitale fuori dal processo produttivo in senso stretto, ha raggiunto il suo apice con la crisi dei mutui sub prime. Ma non è finita. La tendenza alla crescita della finanza speculativa permane con le possibili e probabili conseguenze che essa porta con sé.

Le politiche liberiste hanno quindi determinato un enorme aumento della produttività del lavoro che permetterebbe all’umanità di uscire dalla scarsità e dalla miseria. Se questo non avviene è per limiti interni al meccanismo di sviluppo capitalistico che per salvaguardare i margini di profitto deve distruggere ricchezza e creare artificialmente le condizioni di penuria, della guerra e del conflitto tra poveri.

La falsa narrazione della scarsità e la crescita dei populismi

L’idea che viviamo in un quadro segnato dalla riduzione delle risorse, da limiti insuperabili delle disponibilità economiche, in particolare della spesa pubblica, per definizione fuori controllo, è stata la leva su cui si sono imposti via via sacrifici sempre più duri, lo scasso progressivo dei diritti dei lavoratori, lo smantellamento del welfare.

Nell’estrema debolezza del conflitto di classe, della lotta del basso verso l’alto, la destra populista ha presentato il nazionalismo come possibile forma difensiva degli interessi popolari. In questo quadro è aumentato il razzismo e la xenofobia, e la Brexit, che ha segnato un passaggio storico, ne è un segno evidente, visto il peso determinante della scelta di chiusura sui migranti.

La crisi ha determinato in Italia un peggioramento molto più netto della media europea, sul piano economico, produttivo, delle disuguaglianze fra ricchi e poveri, tra giovani e anziani, nord e sud, con un pesante aggravamento della povertà in generale. Negli ultimi 10 anni lo spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto nel nostro paese non ha eguali in Europa se non in Gran Bretagna. Le politiche a forte impronta liberista che hanno prodotto questo risultato sono state agite da governi di centrodestra ma anche da governi partecipati o direttamente guidati dal partito democratico.

La situazione più grave in Italia rispetto al resto di Europa è dovuta alle politiche che in Italia sono state più dure e datano dal 1992. La pesantezza dell’austerità è dovuta alla scelta delle classi dominanti di chiudere definitivamente il caso italiano, piegando il movimento operaio. Le classi dominanti hanno quindi finalizzato gli interventi in Italia alla vittoria sulle classi lavoratrici anche a costo di indebolire il paese in quanto tale. Emblematica da questo punto di vista la vicenda del governo Monti.

L’attacco liberista sul piano economico e sociale si è coniugato con una pesantissima offensiva ideologica che ha operato per smantellare ogni forma di cultura alternativa. Tutto o quasi il quadro politico, certamente le maggiori forze, ha accettato il paradigma della scarsità, ciascuno piegandolo agli sviluppi della propria propaganda politica. Per Salvini e le destre, le campagne contro il migranti e i profughi; per i Grillini quelle contro la politica corrotta; per Renzi la possibilità di procedere nelle politiche di sostegno alle imprese sulla linea di Confindustria. In questi anni di tagli sistematici al welfare, agli enti locali, di mancati investimenti nella scuola, nella ricerca, nella difesa e salvaguardia dell’ambiente e del territorio, sono ben 40 i miliardi di euro spesi per incentivi dello Stato ai padroni.

Nel contesto dell’aumento delle disuguaglianze e delle difficoltà a costruire un efficace conflitto di classe, cresce in Italia l’imbarbarimento sociale e all’interno di questo la guerra fra poveri alimentata da abili campagne di disinformazione agite dalla destra e dai suoi canali comunicativi.

I migranti hanno assunto la funzione di capri espiatori per una larga parte di popolazione italiana in un contesto in cui l’allarme terrorismo viene sempre più spesso associato al fenomeno migratorio. Il tema del “prima i nostri” in un regime di risorse rese scarse dalle politiche di austerità diventa senso comune e ci mostra come il razzismo è il frutto delle politiche neoliberiste. Lavora nel fondo di culture non risolte, ma si impianta e progredisce nel quadro di un progressivo impoverimento di settori importanti della società italiana. Per questo la lotta contro il razzismo non può essere condotta su basi etiche, ma deve fondersi con il conflitto di classe dal basso verso l’alto.

La questione sindacale

Gli errori del sindacalismo confederale cominciano dalla metà degli anni ‘70 e dalla linea dell’EUR. Nel corso degli anni vi sono state fasi di ripresa della mobilitazione, come sulla vicenda dell’art 18 contro Berlusconi, ma mai un ripensamento complessivo di una linea sindacale sbagliata che si è sviluppata attorno al nodo centrale della concertazione. Oggi la globalizzazione ha tolto ulteriore potere al sindacato che si trova anch’esso in una fase di crisi, sia sul piano delle relazioni di massa, sia dal punto di vista della definizione di una nuova strategia. Vedi, for example, la mancanza di iniziative di scala continentale.

Il sindacato di base ha da parte sua obiettivi più avanzati, e possiede in alcuni settori anche un significativo radicamento, ma rimane complessivamente sotto la soglia della costruzione di quegli elementi di unità di classe necessari per dare efficacia al conflitto sociale. Difficoltà acuita dalla stessa concorrenza tra le diverse sigle di cui la proclamazione a breve di due scioperi generali in date differenti ne è una rappresentazione plastica.

Il nostro punto di vista è che è assolutamente necessaria la ricostruzione di un sindacalismo di classe. In questa fase la nostra priorità è sostenere e partecipare alle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici a prescindere dalle sigle sindacali di riferimento. Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo dando sempre ogni possibile forma di sostegno, sia sul piano politico che materiale.

Per questa stessa ragione parteciperemo alle mobilitazioni del sindacato confederale il 14 ottobre davanti alle prefetture e a quelle successivamente indette da molti sindacati di base, 27 ottobre sciopero generale Cub Sgb e SI Cobas e il 10 novembre USB, Confederazione Cobas, manifestando la nostra netta opposizione all’aumento ulteriore dell’età pensionabile e al DEF nel suo complesso, e ribadendo la necessità di abolire la riforma Fornero.

La nostra proposta politica

A due anni dal congresso regionale del 2015, un congresso difficile segnato dalla rottura con una parte del gruppo dirigente regionale e della federazione di Venezia che avevano scelto, fuori da un percorso democratico e condiviso, il sostegno alla candidatura a presidente della regione Veneto di Alessandra Moretti, arriviamo al nostro decimo congresso in un quadro di tenuta e sostanziale mantenimento delle basi della nostra organizzazione. Questo vale per tutte le federazioni del Prc veneto, che hanno mostrato la loro capacità militante partecipando in modo generoso e capillare alla campagna di difesa della Costituzione. Noi lavoriamo naturalmente a rafforzare il nostro insediamento sociale e il nostro progetto politico, ma finalizziamo questo nostro lavoro politico soprattutto a produrre, finalmente, un balzo in avanti nel progetto di costruzione di un soggetto unitario della sinistra autonomo e alternativo agli altri poli. Dal 2015 a oggi sono stati fatti dei passi avanti anche nel Veneto.

Quest’ultima tornata di elezioni amministrative ha dato segnali chiari. Tutte le liste, variamente collocate a sinistra del Partito democratico e che hanno sostenuto candidati alternativi, hanno ottenuto risultati significativi in tutti i comuni dove sono state presenti. E’ evidente che si è aperto uno spazio. Questo spazio si è ulteriormente allargato là dove questo percorso si è sviluppato a partire dal basso e in maniera partecipata. Un’indicazione chiara che per noi si concreta nella adesione convinta oggi sul piano nazionale alla proposta che si è concretizzata con l’appello del Brancaccio, l’Alleanza popolare per la Democrazia e l’Uguaglianza.

Partire dalla vittoria del No al referendum sulla costituzione

La Costituzione nata dalla Resistenza è stata senza ombra di dubbio nuovamente scelta dal popolo italiano come la propria costituzione. Si tratta di un risultato straordinario reso possibile da una mobilitazione popolare, guidata moralmente dall’Anpi, che ha visto una grande partecipazione che ha sconfitto il populismo dall’alto messo in campo da Renzi. Riteniamo necessario che quella straordinaria mobilitazione si sedimenti in un movimento unitario che passi dalla difesa all’attuazione della costituzione, dei suoi principi di libertà e uguaglianza tra le cittadine e i cittadini, chiaramente esplicitati nell’art 3, che deve la sua stesura a Lelio Basso dirigente della sinistra socialista e studioso di Rosa Luxemburg. Niente accade per caso, e dalla messa in discussione dei trattati europei, l’impalcatura delle politiche liberiste su scala continentale.

In questi mesi si è aperto un forte dibattito attorno al progetto della costruzione di una sinistra che possa essere un punto di riferimento per i giovani, per le lavoratrici e i lavoratori, per ampi strati popolari attratti dalle sirene del populismo. Un fatto positivo. Chi ci conosce sa che noi rifuggiamo da logiche settarie o piccole borie di partito, che sarebbero peraltro prive di sostanza. Abbiamo per così dire una forte propensione unitaria. Abbiamo forte consapevolezza di quelli che sono i nostri limiti e, nella percezione della gravità della situazione politica e sociale che ci troviamo di fronte, lavoriamo alla ricerca della massima convergenza sul terreno dei contenuti e delle pratiche.

Ma riteniamo che il percorso che dobbiamo fare nel nostro paese, così come è accaduto in altri paesi europei, debba essere chiaro non solo sui contenuti ma anche nella collocazione politica. Non è la prima volta che lo diciamo, non esistono terre di mezzo. O la sinistra nel nostro paese si costruisce sulla chiarezza del programma e della sua alternatività agli altri poli o semplicemente non è. Lo ha scritto in questi giorni con chiarezza anche Tomaso Montanari, insieme con Anna Falcone, promotori dell’iniziativa del Brancaccio, in polemica con Padellaro che rianimava la ormai frusta campagna del voto utile. L’unico spazio politico che ci interessa è quello della netta alternatività al neoliberismo, che pur se con diversi accenti rimane l’ideologia politica di fondo, delle forze politiche prevalenti nel nostro paese, dal centrodestra, al Pd e allo stesso Movimento 5 stelle. E’ solo con la chiarezza su questo terreno che in Italia è possibile la ricostruzione di un soggetto unitario di sinistra popolare e di massa. Valga come esempio la forza di attrazione che ha saputo esercitare, rilanciando gli elementi del programma storico del partito laburista, Jeremy Corbyn, nei confronti delle nuove generazioni e tra le lavoratrici e i lavoratori, recuperando nelle stesse aree di disagio sociale che avevano seguito le sirene del nazionalismo xenofobo che avevano alimentato la campagna sulla Brexit. Un programma il cui impianto è chiaramente alternativo alle privatizzazioni, ai tagli nel sociale, allo smantellamento dei diritti dei lavoratori, una netta inversione delle politiche blairiane e di chiara opposizione alla destra che governa oggi in Gran Bretagna. E’ di questo che abbiamo bisogno nel nostro paese. Di una netta inversione delle politiche di austerità, dell’avvio di politiche economiche e sociali che sappiano rispondere con efficacia alle domande e ai bisogni di chi ha in questi anni pagato e pesantemente sulla propria pelle il prezzo salato del liberismo, della gestione capitalistica della crisi.

Citiamo solo alcune delle nostre proposte:

La valorizzazione della costituzione repubblicana contro l’Europa neoliberista.

L’abrogazione dell’art. 81 e del fiscal compact.

Un piano per il lavoro e l’economia ecologica e solidale che comprenda l’abrogazione della legge Fornero sulle pensioni e la proposta della riduzione dell’orario di lavoro.

Un piano del lavoro basato su un forte intervento di investimenti pubblici per la salvaguardia del territorio e dell’ambiente e per la messa in sicurezza del patrimonio degli edifici a partire dalle scuole e del nostro patrimonio di beni culturali e artistici.

Un campo immane di nuove possibilità di impiego che sappia anche valorizzare quella massa crescente di giovani con alti livelli di qualificazione costretti a migrare all’estero per cercare opportunità di lavoro che qui non trovano. Una grande dissipazione, vera, di un patrimonio importante del nostro paese.

L’istituzione del salario minimo per i disoccupati e l’avvio di una radicale riforma fiscale che contrasti l’evasione e l’elusione e ripristini la progressività dei prelievi e una tassa sui grandi patrimoni.

Investimenti nella scuola pubblica, nella ricerca. Un campo vasto di iniziative che siano capaci di migliorare la qualità della vita di tutti/e .

Partiamo, per dirla ancora meglio, dai dieci punti della proposta del Brancaccio.

Un percorso di costruzione del programma dentro una chiara collocazione politica che attraversi i territori e che sia segnato dalla partecipazione dal basso, senza pregiudizi ed esclusioni, in cui tutti/e si sentano protagonisti/e. Fuori dalle logiche politiciste e dalle ansie di riproduzione dei vecchi ceti politici che hanno connotato precedenti esperienze, non tutte in verità.

Il Veneto e il referendum sull’autonomia

Molti avevano preconizzato una facile vittoria del Sì al referendum sull’autonomia nel Veneto. Un plebiscito per Zaia e la Lega. Non vi annoio su cose che tutti sappiamo già. Il carattere strumentale di questo referendum, il disegno politico che lo sottintende, la ricerca di una nuova legittimazione da parte del ceto politico che governa, malamente, questa regione da ormai molti, troppi anni. Quello che mi pare importante dire e che spero insieme ci diciamo è che la possibilità di una netta vittoria per chi lo ha promosso si allontana. Io non credo che questo sia legato, o meglio si leghi solo alla sostanziale inutilità dal punto di vista pratico di questa consultazione. Mi permetto di pensare che anche altre siano le ragioni che animano una consistente tendenza all’astensione, che a mio avviso deve e può essere rafforzata. L’impatto che hanno avuto vicende come il Mose, quella delle banche popolari venete, dei Pfas, della Pedemontana, la percezione diffusa di una condizione materiale che non migliora a livello di massa, nonostante le conclamate performance dell’economia del Veneto (dove rimane alta la percentuale di popolazione a rischio di povertà) ha a mio avviso incrinato la credibilità del centro destra nella nostra regione. Questo sentire non è ancora chiaro in assenza di una forte e visibile proposta di alternativa, ma comunque appare diffondersi né bastano a contenerlo il refrain “prima i veneti” e le campagne contro i profughi e i richiedenti asilo. Penso che una sconfitta o comunque una vittoria risicata del sì, possano essere le basi per una ripresa di una forte offensiva contro la Lega e la destra nel Veneto. Il Pd si è già chiamato fuori. Non è nemmeno in discussione la subalternità, nella nostra regione, di questo partito che ha scelto di schierarsi per il sì rincorrendo Confindustria e la Cisl e finendo a rimorchio della Lega. Un suicidio politico, io penso, che aiuta comunque, questa è la mia opinione, la crescita della sinistra nel Veneto.

Un progetto a cui credere e a cui è necessario lavorare, non solo in previsione delle prossime scadenze elettorali, le elezioni politiche e le amministrative di Treviso e Vicenza, e di scadenze più lontane, ma non lontanissime – le regionali del Veneto – ma soprattutto per radicare nei nostri territori una rinnovata presenza organizzata della sinistra che sappia ricostruirsi su basi di massa, a partire dalle lotte per la difesa dei diritti dei lavoratori, dell’ambiente, di una società più giusta e inclusiva. In questi anni la crisi ha pesantemente segnato la struttura economica, produttiva e le relazioni sociali nei nostri territori. Nella crisi, nel Veneto si sono persi quasi 200mila posti di lavoro, solo in parte recuperati dalla crescita dei servizi e comunque sostituiti in prevalenza da contratti temporanei o precari. Si può dire che nella sostanza, anche là dove si è avuta una crescita dell’occupazione questa è segnata da rapporti di lavoro a termine e dai bassi salari e dal pesante sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori. Al di là delle chiacchere di Confindustria sul paradigma del nuovo manifatturiero o su industria 4.0, la realtà è questa. Il Veneto rimane tra le regioni del Nord Italia quella con i salari e gli stipendi più bassi, emarginata dai centri strategici dove crescono e si sviluppano le attività produttive ad alto valore aggiunto: la ricerca, i servizi finanziari, il settore dell’informatica. Una borghesia e una classe politica ancorate a logiche predatorie e clientelari di cui la vicenda del Mose e delle banche venete, solo per citare un paio di esempi, sono una chiara cartina di tornasole. Della miseria di questa classe dirigente ha parlato con toni sconsolati l’ex direttore della fondazione nordest Stefano Micelli, una voce non proveniente di certo dalla sinistra politica o dal sindacalismo militante. La lega e la destra hanno alimentato scientemente la guerra fra poveri cavalcando convintamente l’onda liberista. Hanno fatto della narrazione della scarsità e della politiche escludenti la base dei loro recenti successi politici, come altre formazioni politiche sorelle in Europa. Apparentemente un terreno di forza, ma anche un vicolo cieco senza sbocchi se non quello di esasperare i conflitti.

Solo la proposta di una netta alternativa, fondata su un nuovo paradigma centrato sui bisogni sociali crescenti, sulla difesa del territorio e dell’ambiente e della sua valorizzazione, su una rottura con la tendenza progressiva alla riduzione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, che metta insieme in un progetto comune tutte le forze alternative al neoliberismo, ancorate alla difesa e all’applicazione della nostra costituzione può dare risposte concrete agli strati popolari che vogliamo rappresentare, rompere l’egemonia della destra populista in tutte le sue possibili articolazioni.

Paolo Benvegnù, 8 ottobre 2017 – Mestre (VE)

 

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